Marco, nel suo primo salto nel tempo, aveva accompagnato in silenzio Hermann Buhl sino al momento in cui, dopo 41 ore da quando era partito, egli aveva raggiunto la tenda del campo V, dove era stato accolto ed aiutato dai suoi compagni dopo l’incredibile prima salita in solitaria del Nanga Parbat. Quando, improvvisamente, venne avvolto da una luce fortissima e si trovò a saltare nuovamente sino al….
1970 – Reinhold e Gunther Messner sul Nanga Parbat – 8125 metri
2) “La montagna nuda” di Reinhold Messner – Corbaccio Editore – Milano – 2003 – segn. Biblioteca N321
Marco riconobbe subito ancora una volta l’inconfondibile linea del Nanga Parbat, la montagna cosiddetta “assassina”, ma questa volta era sul versante Diamir (dove aveva tentato di salire Mummery nel 1895, trovando però la morte per l’impossibilità di scalare la montagna da quel lato e con l’equipaggiamento dell’epoca), la parete himalayana alta circa 4.000 metri. I due uomini che Marco vide erano quelli di due alpinisti tirolesi, i fratelli Reinhold e Gunther Messner. Essi facevano parte di una spedizione tedesca guidata ancora una volta dal dottor Karl Maria Herrligkoffer, lo stesso capospedizione del 1953, quando Buhl aveva scalato la montagna da solo per la prima volta. Egli allora aveva avuto dei contrasti con Buhl per la sua totale insofferenza alle gerarchie e lo stesso problema si era manifestato con Reinhold. Messner era stato scelto perché era uno dei più forti alpinisti dell’epoca (pur senza esperienze in Himalaya sugli Ottomila), ma egli avrebbe dovuto tentare la scalata con un altro alpinista tedesco e non con suo fratello Gunther. Tuttavia, la tensione tra i due sfociò in un tentativo solitario di Reinhold, poiché egli era l’unico in grado di poter salire in quel giorno (era il 27 giugno 1970) in buone condizioni fisiche. Gunther però non si rassegnò ad attenderlo al campo alto e decise anch’egli di salire, seguendo suo fratello alcune ore dopo la sua partenza. Per raggiungerlo, profuse uno sforzo immane che concorrerà poi alla tragica conclusione della sua salita. Peraltro, Gunther e i suoi compagni al campo non avevano neanche attrezzato la discesa con corde fisse, precludendo in tal modo la possibilità di ritorno ai due alpinisti.
Marco poteva sentire i pensieri di Reinhold, mentre cercava di scendere insieme a suo fratello da quella immane parete (opposta a quella da cui erano saliti) nel disperato tentativo di salvare entrambi:
“Con terrore, nei momenti di luce, vedo entrare in me la disperazione. La parete sotto di noi precipita per più di 3000 metri nella valle Diamir. E lì c’è solo un’oscura profondità! Ciononostante, avanti! Non posso più aspettare, devo procedere, guardare, cercare una strada. Il come e verso dove procedere è diventata un’ossessione. Vado avanti, scendo, in mezzo alla nebbia! Di tanto in tanto sparisco alla vista di Gunther, poi riappaio e gli faccio segno di venire. Avanti, lungo il nevaio, da un banco di neve all’altro: è la paura che mi spinge. […] Gunther, lontano sopra di me, è appena riconoscibile. Scende molto lentamente. Si deve fermare a ogni passo. In questo momento basterebbe un errore, un unico errore!”

Ma Marco vorrebbe gridargli di non scoraggiarsi, di continuare a scendere lungo la via che Reinhold ha intuito e che li porterebbe ai piedi della parete, fino alla salvezza. “Prosegui Reinhold”, gridava con tutta la sua forza “non ti fermare, scendi lungo quel canalone e troverai la fine delle vostre sofferenze”. Purtroppo, però, sapeva bene che non poteva essere sentito. Ma, improvvisamente, udì ancora i pensieri di Messner:
“Solo se vado avanti, ottenendo così una visuale complessiva, posso risparmiare a Gunther deviazioni e salite supplementari. La via non è per nulla facile da trovare e spesso devo ritornare indietro di un buon tratto. […]. Improvvisamente di fianco a me c’è un terzo alpinista, che procede con me, sempre regolarmente un po’ a destra. Credo che sia lontano pochi passi da me, non esattamente nel mio campo visivo. Dunque, non posso vederne la figura senza distogliere l’attenzione da ciò che sto facendo, ma sono sicuro che c’è. Sento la sua presenza, non ho bisogno di prove e alcuni rumori sembrano confermarla: uno scricchiolare sul ghiaccio, un suono. Non parla, è semplicemente lì. Si ferma quando mi fermo, si muove quando mi muovo. Che mi segua qualcuno? Forse uno spirito? In ogni caso posso andare sicuro, perché la sua presenza è una sorta di segnale di ritorno della mia presenza. Ora siamo in tre, e non mi chiedo se sia possibile. È così e basta. Nessun miraggio. Ma poi mi dico, no, non può essere. Lo so bene che io e Gunther siamo soli e che sono preda di allucinazioni, che questa presenza non ci può essere. Eppure è lì. Improvvisamente mi è di nuovo vicino. Procede sempre alla stessa distanza, accanto a me”.
Marco era riuscito a fargli sentire la sua presenza e ora tentava di guidarlo attraverso la discesa, cercando di mostrargli la via e gli appoggi:
“La sensazione di seguire una via nota mi rimane. Mi sorprendo di come mi riescano naturali i movimenti, li faccio uno dopo l’altro, come un sonnambulo. Come se conoscessi a memoria gli appigli o come se li avessi eseguiti in sogno centinaia di volte. O c’è qualcuno che mi aiuta? Forse quel tale che mi seguiva prima”.
Marco però non riuscì a trattenere le lacrime: egli sapeva bene quale sarebbe stata la tragica conclusione di quella drammatica discesa: quando i due erano ormai arrivati al fondo del tratto più duro e pericoloso, Gunther rimase un po’ più indietro, mentre Reinhold cercava sempre la via migliore per condurlo in salvo. Proprio allora, una valanga portò via Gunther e Reinhold se ne accorse solo dopo. Non vedendolo arrivare, tornò indietro e riprese a cercarlo, senza purtroppo alcun esito. Rimase sulla montagna ancora per molto tempo credendo, nelle allucinazioni che lo assalivano, di essere ormai morto. Fino a quando, ormai certo della morte del fratello, non riprese la discesa fino ad essere salvato da alcuni contadini del posto.

Marco era riuscito a salvare solo Reinhold, poiché al proprio destino non si può sfuggire e il Nanga Parbat era la montagna del destino di Gunther. Marco si chiese allora che senso avesse dover scegliere chi salvare ma, al tempo stesso, si convinse che non era lui a poter scegliere, ma solo Colui che può veramente conoscere la vita degli uomini. Marco aveva sospinto Reinhold lungo il deserto di ghiaccio e di rocce che sembrava dover essere la sua tomba e che invece si trasformò nella sua rinascita umana ed alpinistica, quasi come reazione alla drammatica morte del fratello. E, a quel punto, come quando si trovò accanto a Buhl, Marco venne nuovamente avvolto da una luce fortissima, che lo sollevò dal 1970 sul Nanga Parbat e lo portò sino al…. [continua…].

Messner aveva attraversato per la prima volta un ottomila, salendo dal versante Rupal e scendendo dal versante Diamir. Da quella drammatica esperienza Messner riportò gravi congelamenti ed amputazioni, che gli impedirono di tornare a scalare sulle amate Dolomiti, ma che non gli impediranno negli anni successivi di essere il primo uomo a salire tutti gli Ottomila senza ossigeno, nonché a diventare l’alpinista e l’esploratore più famoso del mondo. Tuttavia, fu anche bersagliato da infami accuse (anche del capo spedizione) che addirittura sostenevano che lui avesse abbandonato il fratello sulla vetta o sulla via del ritorno. Egli lottò sempre strenuamente contro tali terribili accuse finché nel 2000, durante una spedizione organizzata dallo stesso Messner sul versante Diamir per aprire una nuova via (tentativo però non riuscito), uno degli alpinisti, Hanspeter Eisendle, trovò casualmente un resto umano (un perone) alla base del versante Diamir, proprio dove Reinhold aveva detto di aver perso le tracce del proprio fratello. Nel 2004 l’anatomopatologo Eduard Egarter (che aveva studiato i resti dell’Uomo del Similaun) confermò con le sue indagini genetiche che il perone apparteneva proprio a Gunther. Dopo 34 anni di battaglie, Reinhold Messner riuscì a confutare definitivamente le accuse mosse nei suoi confronti e, in fondo, a sentirsi in pace con suo fratello. Negli anni che seguiranno, Reinhold Messner completerà nel 1986 il suo sogno di salire (primo uomo al mondo) tutti gli Ottomila senza ossigeno e in stile alpino, cioè senza mai organizzare le grandi spedizioni tipiche del passato. Addirittura, nel 1978, tornò da solo sul Nanga Parbat e per una nuova via, che lui stesso definì la via più audace della sua vita e nel 1980 scalò per la seconda volta l’Everest, sempre in solitaria. Attraversò a piedi sia l’Antartide e sia il deserto del Gobi. Oggi si dedica ai suoi Messner Museum aperti in Alto Adige, dove ha raccolto numerose testimonianze della vita sulle montagne e delle sue imprese. Ha scritto numerosi libri, tra cui quello dal quale sono tratte queste note.